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Antologia critica

Nella foto in alto:

 

Dalla mostra Dialogo Incontro Luce

nello Studio Lorenzo Mazza

Gianpietro Agostini © 2016

Luca Pietro Nicoletti

Gli ideogrammi graffiti di Lorenzo Mazza, “Storie dell’arte”, 2017

È tempo per riflettere sul senso e sull’itinerario di una certa ricerca di pittura materica che prende vita all’inizio degli anni Ottanta e segue un suo percorso nei decenni successivi, seguendo una via di lirismo privato, intimo e spesso sognante. È una vicenda di ridiscussione di strumenti ereditati da una generazione più anziana, con cui i giovani nati negli anni Cinquanta ed emersi nel panorama artistico milanese tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta hanno fatto i conti trovando una propria via autonoma, di ripensamento ma non di manierismo. Viene spontaneo riflettere su questo snodo delle vicende della pittura a Milano visitanto la bella mostra di Lorenzo Mazza curata da Cristina Sissa e Chiara Gatti (che firma anche il testo in catalogo) presso lo Studio d’Arte del Lauro.

Mazza ha fatto parte della generazione più giovane sostenuta dalla Galleria delle Ore di Giovanni Fumagalli, che per cinquant’anni aveva tenuto una posizione di sostegno e di attenzione al lavoro dei giovani con la sola preoccupazione di un’offerta di qualità e nessuna cura per gli andamenti delle mode e del mercato. Il primo problema in agenda, sia per i pittori sia per gli scultori, si poneva nella questione della materia: cosa poteva significare in fondo fare una pittura di materia in una stagione lontana dalle tensioni dell’Informale? Cosa poteva significare, insomma, fare una pittura di gesto, di impasti, di attenzione alle superfici come in quella temperie, usandone gli strumenti linguistici ma non potendo vivere quella tensione degli anni del dopoguerra? Significava sicuramente una scelta di fedeltà a una identità culturale e a un modo di intendere la pittura come tracciato emotivo, come diario intimo: un segnale non da poco in una stagione che aveva segnato il ritorno alla pittura, ma che aveva aperto la strada a una figurazione brutale, iattante, sprezzante della qualità e del valore morale del mestiere. Per Mazza significa intendere la tela come una parete intonacata, come un affresco o una parete di roccia graffita come le grotte di Lascaux, che tanto avevano dato da pensare in ambito surrealista, e che inducono a un cortocircuito fra raffigurazione primitiva e automatismi di scrittura. Lorenzo segue questa linea come avvio di una pittura narrativa, fatta di segni elementari incisi su una superficie di impasto materico trattata con ossidi in polvere che determinano l’intonazione cromatica della tela: una pittura ruvida, dunque, fatta di segni elementare ma senza concessioni a un’estetica del grottesco o del volgare. Sarebbe stato un attimo, in fondo, cadere nell’idea di graffito urbano, o in un ripensamento tardivo di Dubuffet e di tutta una linea di pittura d’immagine ottenuta grattando nella materia.

Mazza, invece, frequenta con assiduità i territori dell’incisione calcografica, e quel segno che graffia la tela ha lì una sua origine genetica fondamentale: fatti i dovuti distinguo di materia e formato, egli tratta la tela al pari della lastra di rame, ottone o zinco e con lo stesso istinto di immediatezza. Non c’è mediazione di disegno o di progetto fra il momento ideativo e la realizzazione dell’opera finita: piuttosto è un accostamento alla prima, l’azzardo di avvicinare la materia senza tentennamenti consapevoli di non poter sbagliare se non a rischio di compromettere il lavoro.

Ecco dunque questo suo mondo popolarsi di presenze simboliche, di maniche del vento che somigliano a megafoni o ad altre strutture fluttuanti in un mondo notturno e sognante. Ecco la bicicletta, icona di una generazione ed elemento del quotidiano, ma anche oggetto deformato come a voler recuperare un’autenticità di espressione infantile. Oppure i diapason, che potrebbero sembrare figli delle “antenne” della pittura di Mario Raciti. Non molto più tardi, anche Pierantonio Verga avrebbe dato vita alle proprie case graffite su cieli notturni e sognanti di estrazione liciniana e di visione onirica. In entrambi i casi, in fondo, la pittura coincide con un racconto tracciato sul campo pittorico come se fosse la testimonianza di una scrittura privata composta da un lessico di ideogrammi domestici. Si può chiamare in causa Klee o Melotti, numi tutelari di una certa idea di “leggerezza” dell’opera d’arte, ma forse la stella fissa di riferimento più utile rimane Licini, con quella sua idea di fluttuazione di alcuni elementi, vere e proprie presenze lineari, in uno spazio che altro non è che la superficie stessa della tela. In più, nel lavoro di Mazza, in un gioco continuo di affondi in profondità e ribaltamento dei piani, c’è una certa bonaria ironia: nei suoi simboli rimane sottofondo un aspetto interrogativo, ma di tono lieve, come a non voler dare alla pittura una gravità troppo severa. In un racconto notturno, di atmosfere talvolta cupe e talvolta lattate, gli oggetti sono come costellazioni, leggeri come stelle danzanti.

Chiara Gatti

Intervalli d'ottava

“Queste pitture, ai nostri occhi, sono miracolose e ci comunicano un'emozione forte ed allo stesso tempo intima,

pur rimanendo in qualche modo indecifrabili.”

G. Bataille. La peinture prehistorique. Lascaux ou la naissance de l'art, Skira, Genève 1955

Bruno Munari diceva che «la cosa più difficile è essere facili». Non nel senso di semplici, con derive perfino banali. Ma in una accezione più calviniana del termine: leggeri. Contro l'inerzia, la gravità del mondo, sussistono rimedi che l'arte - tanto quanto la letteratura o la musica - ha messo in campo per sottrarre peso ai suoi racconti. Si pensi alle geometrie esili di Klee, alle sagome galleggianti di Arp, agli angeli funamboli di Licini, alla pioggia d'ottone di Melotti, alle vegetazioni aliene di Enrico Della Torre. Per tutti loro, la leggerezza del gesto e del pensiero è stato l'unico antidoto al fardello dell'esistenza, all'onere insostenibile della contingenza. Per Lorenzo Mazza la leggerezza è misura del segno, equilibrio della traccia, sintesi della forma; è l'essenziale, la linea. Proprio Fausto Melotti ha dedicato al tema della linea un piccolo, celebre zibaldone. «Frammenti di una storia delicata» li definì il grande Giorgio Manganelli, indecifrabilı, principe di una prosa a sua volta eterea “inquietante grazia, forse raccontata in una lingua in cui abbiamo accesso solo nei sogni, nei giochi”. La lingua di Lorenzoé quella dell'infanzia e della meraviglia. Da quarant'anni la sua pittura si meraviglia di tutto. Di come un dettaglio possa diventare protagonista. Di come la materia possa stemperarsi fra le mani dell'artista. Di come un paesaggio possa essere incorporeo, una città invisibile,un oggetto volante. Quando negli anni Ottanta distillava sulla tela, con i suoi ossidi colore della cenere e dell'argilla, prospetti di luoghi arcaici, templi, torri babilonesi, memore della sua formazione d'architetto, abituato a seguire leggi statiche, sedotto dalle germinazioni verticali, iniziò a inseguire nella solidità dei corpi, sotto lastre sepolcrali, il vuoto da cui sibilava l'aria. Una fenditura nella roccia, una porta nella ziggurat, un ingresso, un passaggio uno stargate che
regalasse spazio a composizioni sigillate con pareti di blocchi monolitici. Come un cercatore d'oro, un esploratore visionario, ha disegnato così la sua “X” su mappe dipinte di polveri minerali e smalti per indicare il punto esatto in cui scavare. Da Iì sarebbe passata la luce, “Passa l’infinito di lì passa la luce” spiegava Lucio Fontana a chi non capiva i suoi “tagli”, altro esempio prospero di leggerezza.

Alberto Pellegatta

La pittura di Lorenzo Mazza


la pittura di Mazza è un naufragio in terre disabitate, è il luogo in cui la nostalgia compone i suoi paesaggi lunari. Il pittore ritorna incessantemente sui particolari, per trascinare nella visione almeno un brano di ciò che è andato perduto, senza condizionamenti o intenzioni estetiche ma seguendo l'istinto, fino allo sfinimento dell'immagine, quando il segno diventa concitato e nervoso, impaziente. La struttura, irrigidita in orizzonti, ruote o altalene, illanguidita in tracce acquose, ambigua o più calcata, rappresenta la ragione che ordina gli eventi ma da cui trabocca, insieme alla materia della pittura, tutta la passione umana. C'è una malinconia ludica in queste sottrazioni, tra colate e strappi stilistici, alla ricerca dell'origine, incupita nel nero frontale o brillante nei rossi eretici. Presenze ancora tiepide, di qualcuno che forse se n'ề appena andato. Scacchiere musicali o notti cadenzate e modulari, riproduzioni in scala della memoria, costituite da elementi inseriti a distanze regolari nell'ambiente, preziosi architravi del piacere.
Dai fondi d'ossido emergono figure allusive che comunicano sensazioni di panico, di dispersione (Lucy). E’ ciò che proviamo davanti al firmamento, quando ci scopriamo parte del cosmo. Per questo anche la figura è ricondotta a una dimensione spettrale ei segni graffiati, incisi come nelle caverne paleolitiche o nelle prigioni, segnano campiture opalescenti o tormentate stesure terrigne. La scena è sempre sostenuta da solide architetture, sfondate da potenti impeti cromatici. La realtà, attutita e velata (l'artista interviene sugli oggetti come fa il tempo consumandoli), permette l'emersione di sostanze e tensioni indecifrabili, che tuttavia la mente riconosce come un remoto ricordo d'infanzia. Nella consunzione rimangono pochi oggetti superstiti, e tutta la rappresentazione è delegata al raffinato lavorio sulla materia che increspa e vena la visione: panorami tonali che non usano semplicemente i colori ma coincidono con essi. Le forme - liriche e trasognate, rifondate - subiscono una metamorfosi e diventano paesaggi di altalene, luoghi dell'utopia e del vento: «Nel regno del sogno della morte / Lasciate anche che porti / Travestimenti cosi deliberati / Pelliccia di topo, pelle di cornacchia, doghe incrociate / In un campo / Comportandomi come il vento si comporta / Non più vicino / Non quel finale.
Le sagome, semplificate e primarie come l'uovo, invadono i quadri della seconda metà degli anni novanta. La pittura compie un'incessante opera di velatura, fatta di spessa materia stratificata. Rimangono le strutture latenti, le linee, le tensioni spaziali dell'inizio ma il quadro procede filtrando l'immagine fino all'estremo, lasciando solo ciò che tiene e suona. Rimane la sfera, la ruota (forse immagine del tempo) ma tutto diventa siderale, celeste, compaiono le maschere africane, gli interni degli atelier, i gesti dell'incisione: cosi l'immagine si spoglia asciugandosi nel tormento. Il segno assottigliato e appuntito vibra come un diapason immerso in un sogno nevoso. Raffinato e poetico nei dettagli, attraverso lo studio del secondo futurismo, Mazza approda a una pittura quasi metafisica, liberata e primitiva - più Morandi che De Chirico, Quadri come Bike hanno qualcosa che anticipa il pensiero, forse l'impronta insorgente di una mancanza. Si tratta di orizzonti incantati, tridimensionali. Il quadro termina quando tutto si tiene, quando si crea un campo di forza attraverso l'equilibrio compositivo. Un campo di forza che aggancia anche noi spettatori.

Marina de Stasio

Ossidi, dal catalogo della mostra, Milano, 1988. Edizioni Galleria delle Ore

La pittura di Lorenzo Mazza nasce da una costante ricerca di armonia e ricomposizione fra elementi ed esigenze contrastanti o opposti: tra il rigore geometrico delle strutture e la fantasia, la danza dei segni che lo animano; fra la tavolozza sobria e severa e la sensibilità di colorista con cui il pittore coglie tutti i toni, le luminosità, le gentilezze dei grigi; tra la pesantezza delle architetture, che suggeriscono grandi massi di pietra o lucenti lastre di ardesia, e l’aerea leggerezza del segno. E’ un’opposizione che non deve però trarre in inganno: i segni e le scritture, pur liberi e mossi, si bilanciano, si richiamano l’un l’altro, si dispongono secondo equilibri compositivi rigorosi e , d’altro canto, le geometrie strutturali sono spesso imperfette, artigianali.(…) L’uomo è il grande presente – assente in queste opere, lo spazio della composizione è lo spazio dell’uomo, in questo senso va inteso il riferimento all’arte antica, che vuol essere al tempo stesso un riferimento all’architettura moderna: nel modulo di Le Corbusier come nell’ancona e nella crocifissione l’uomo è la misura delle cose.

In alcune opere ricorrono strutture di architetture arcaiche: portali imperfettamente squadrati, ingressi tombali; si pensa ai sepolcri degli Atridi o alle tombe dei Giganti sarde. Tuttavia, ancora una volta, non c’è un interesse per una dimensione metafisica, tensione verso ciò che sta oltre il reale, il visibile: le porte non si aprono su una realtà altra, non è il mistero che affascina l’artista, ma l’idea, piuttosto, della durata, di ciò che nel tempo testimonia la continuità della vicenda umana.

Luisa Somaini

Altalena e altri ricordi, dal catalogo della mostra, Milano, 1991. Edizioni Galleria delle Ore

Lascia vagare la mente e ascolta le proprie emozioni ma è sempre lucido nel costruire. Stende gli ossidi di ferro e le terre in una gabbia strutturale precisa, a volte disattesa ma mai dimenticata, in cui i pochi tratti essenziali che evocano un’altalena o una scala, sono scansioni spaziali, il segno allude e compone. Non c’è abbandono nella materia pittorica di Lorenzo Mazza, che pure vibra strato su strato dentro ampie tarsie dove l’emozione ristagna ancora in comparti di colore, come nebbia sulla riva o zona d’ombra contro il muro.

E’ ancora la tenace predisposizione a costruire che l’artista ha chiamato “l’insonnia del ragno” (dal titolo di un’opera dell’86), sebbene ora meno vigile e ossessiva di un tempo, a reggere le fila del suo fare pittura, del suo tracciare e ripartire lo spazio sulla superficie della tela utilizzando un carboncino montato su una stecca; del successivo stendere gli ossidi in larghe pezzature di colore che a volte cancellano appena a volte vengono a commentare quanto precedentemente stabilito. Non c’è mai disegno o schizzo iniziale che funga da appunto preparatorio alla pittura. Il dipinto si compie a poco a poco attraverso i successivi aggiustamenti che non sono tecnici o meramente strumentali al completamento del quadro, quanto piuttosto di progressiva appropriazione emozionale e conquista dell’opera allo stato nascente, di chiarificazione mentale del progetto e nello stesso tempo di avvicinamento all’immagine sognata.

Klaus Wolbert

Da: Arte moderna a Milano. Tradizione e presente, dal catalogo della mostra Sieben kunstler aus Mailand, Mazzotta, 1992

Anche in Lorenzo Mazza, come in Gastone Novelli o Alfredo Chighine, i pericoli di una dissoluzione completa della figurazione in una eruzione del casuale sono banditi grazie a una cultura pittorica controllata e a una chiara impostazione compositiva. Pure Mazza dispone di un vocabolario di base definito di elementi formali attribuibili a segni semplificanti quali croci, cerchi, rettangoli oppure a forme che presentano analogie con le scale. Mazza integra questi elementi nelle sue composizioni pittoriche in molteplici variazioni creative. Esse compaiono come indicazioni a carattere simbolico, come segni misteriosi o resti di graffiti su un muro sgretolato.

La pittura che prende forma in tratti spontanei, improvvisati in zone di colore separate da contrasti molto contenuti, si alterna ad una struttura policroma di tipo grafico, abbozzata. La superficie delle immagini diventa quindi un evento dalla struttura estetica estremamente delicata, costituito da gesti cromatici e formalmente simbolici nonché da appunti soggettivi. Mazza gioca con virtuosismo con la tensione che nasce dall’azione reciproca fra automatismo e controllo, struttura casuale delle informazioni e pregnanza plastica, laddove il colore in tonalità spezzate, unito a rossi inglesi e pigmenti minerali puri, contribuisce a differenziare le figure.

Lorenzo Mazza

Presentazione al catalogo della mostra Mitologia Domestica. Edizioni Galleria delle Ore 1994

Se traccio sulla tela due segni veloci, so che sto tracciando due segni veloci: la mano, il braccio, l’occhio e la mente sono due segni veloci.

Se mi allontano e guardo, l’occhio e la mente mi dicono: ecco una scala. Se mi assale l’impulso di cancellarla, la mano, il braccio, l’occhio e la mente cancellano quei due segni. Se mi allontano e guardo, l’occhio e la mente mi dicono: ecco quei due piccoli rilievi di materia erano una scala e ora sono la memoria di una scala.

Le opere sono le tracce sensibili del pensiero. Sono come dei brevi corsi d’acqua che affiorano nel deserto carsico in modo e forme imprevisti, alimentati da una vena sotterranea che si apre una via tormentata attraverso i salti dello strato geologico e le caverne senza luce. Il mio lavoro segreto procede in infinite direzioni, in modo disordinato e sincronico, spesso formalmente antitetico, con un gran numero di spunti eterogenei in forma di piccoli disegni, scarabocchi su tela o dove capita: anche solo chiudendo gli occhi (dipingere con la mente…).

Solo una piccola parte di questa insonnia raggiunge avventurosamente la luce nella compiutezza dell’opera.

Corrado Castellani

Dal catalogo della mostra Stanze interni e interiorità. Conegliano, 1995

Questa “mitologia domestica” nasce da una pittura che si inoltra nella terra di nessuno tra la figurazione e l’informale. Evita la dissoluzione dell’immagine e ne propone una versione libera e allusiva, in cui gli automatismi e le casualità sono tenuti sotto il controllo dell’impostazione compositiva e della coerenza cromatica.

Le stesure di una materia pittorica densa e stratificata si distribuiscono in zone di colore separate da modeste distanze tonali.

Le percorre un segno che scava, incide, delimita, costruisce forme dall’aspetto tanto insolito quanto familiare.

E’ un io istintivo, immediato come quello infantile, pieno di stupore e privo di convenzioni, a tracciare gli “oggetti buoni”, individuando presenze rassicuranti tra il ricordo e l’immaginazione, lo spunto fantastico e il riferimento realistico.

La tonalità emotiva di questa pittura è serena, estranea al conflitto e al pathos drammatico. E’ paga dell’evocazione di presenze benevole, chiamate a colmare i vuoti di uno spazio mentale bisognoso di arredi confortanti.

Marina De Stasio

Presentazione al catalogo della mostra Opere 1986-1995. Zelcova, 1995

La superficie del quadro, per Lorenzo Mazza, è un campo aperto dove tutto può succedere: ogni quadro è un’avventura, dal lavoro del pittore può nascere qualunque cosa, un’immagine sconosciuta può apparire per la prima volta o può ritornare ciò che si era perduto. Ogni volta l’attesa e la ricerca accompagnano la genesi dell’opera, che non è mai la realizzazione di un progetto, ma è sempre un processo di conoscenza, è sempre domanda, mai risposta definitiva.

E’ una pittura antiromantica, che non vuol essere espressione di sentimenti ed emozioni, ma non è neppure una pittura razionalista, risultato di calcolo e progetto: è soprattutto, è prima di tutto pittura, non pittura usata per dire qualcosa d’altro, ma pittura che riflette su se stessa, sul proprio linguaggio, sulle proprie possibilità, esplorazione di quanto la forma-colore, compatta o graffita dal segno, possa raggiungere in termini di forza espressiva e di approfondimento senza concedere nulla alla decorazione. E’ quindi una pittura che vuole essere profonda, non esteriore, non di superficie, ma non per comunicare contenuti, piuttosto per ritrovare un’essenza antica, primaria di se stessa. Una pittura-archeologia, che scava nel profondo della materia e nell’intensità del gesto inconscio, per giungere a forme primordiali, assolute.

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